Gli Ermellini, con sentenza della Cassazione Penale n°22148/2017 intervengono con un radicale ribaltamento rispetto al passato sul tema del controllo a distanza dei lavoratori dipendenti.
Il ricorso
Andiamo con ordine.
La ricorrente impugnava sentenza con la quale la stessa era stata condannata alla pena di € 600 di ammenda per il reato previsto e punito dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. n°300/70) in relazione agli articoli 114 e 171 del Codice Privacy (d.lgs.196/03), nonché art. 38 Statuto Lavoratori perché, nella qualità di amministratore unico di una S.r.l. aveva installato nei locali della stessa un impianto di videosorveglianza collegato ad un impianto WI-FI e monitor in grado di trasmettere le immagini, senza aver previamente stipulato un accordo con le rappresentanze sindacali ed in assenza dell’alternativa autorizzazione della DTL (direzione territoriale del lavoro) competente.
Il prevalente orientamento giurisprudenziale degli Ermellini (cfr. Cass. Pen. Sez. III n°22611) propendeva in passato per l’insussistenza del reato contestato alla ricorrente, ogni volta che, nonostante non fossero intervenute le condizioni di autorizzazione previste dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, si fosse ravvisata la presenza di un consenso validamente espresso da parte dei lavoratori dipendenti all’installazione dell’impianto. Argomentazione sfruttata dalla ricorrente che però con un inaspettato colpo di scena si è vista rigettare il ricorso e condannare alle spese di giudizio.
La riforma del Jobs Act che ha avuto ad oggetto anche il corpo dell’art. 4, non ha infatti influito sui presupposti per l’installazione di apparecchiature o di impianti audiovisivi dai quali possa derivare anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori quindi sulla circostanza che la detta installazione sia preceduta dalla stipula dell’accordo sindacale tra datore di lavoro e RSA o RSU, con la conseguenza che se l’accordo non viene raggiunto il datore deve necessariamente presentare richiesta di autorizzazione alla DTL competente per territorio.
Di conseguenza in mancanza dei prerequisiti suddetti l’installazione è illegittima e di conseguenza il datore può essere sanzionato penalmente.
Leggendo l’art. 38, tuttavia, si nota che lo stesso non riporta nessun riferimento all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. La Causa è da ricercarsi nell’art 179 come 2 del Codice Privacy che ha eliminato la parola “4” dal corpo dell’art. 38. Prima della riforma operata dal Jobs Act, infatti, l’art. 171 del Codice Privacy rinviava all’art. 38 per le violazioni del disposto dell’art. 114, che rinviava appunto all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Con l’intervento del d.lgs. 151/2015, viene eliminato il riferimento all’art 114 inserendo espressamente il richiamo all’art. 4 commi n°1 e n°2.
L’orientamento giurisprudenziale
Il risalente orientamento giurisprudenziale riguardo a tali fattispecie, faceva leva sulla portata scriminante del consenso (scritto) da parte dei dipendenti, sempre che lo stesso provenisse dalla totalità degli stessi.
La norma (art. 4 Statuto dei Lavoratori) posta a tutela del lavoratore da forme indirette di controllo, veniva interpretata alla luce del generale principio secondo il quale, l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte del titolare del bene protetto esclude automaticamente l’integrazione dell’illecito (sempre rimanendo nell’ambito dei diritti disponibili).
La recente sentenza della Suprema Corte muta radicalmente orientamento sottolineando il carattere collettivo e superindividuale degli interessi tutelati dalla norma in questione.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato l’illiceità del trattamento dei dati personali mediante sistemi di ripresa in mancanza dei presupposti autorizzativi di cui al citato articolo 4 e nonostante il consenso espresso dei lavoratori. Il fondamento di questo mutamento di rotta da parte della Cassazione è da ricercare nella circostanza che il lavoratore è soggetto debole del rapporto di lavoro.
Va da sé che la posizione di forza che il datore di lavoro ricopre giuridicamente all’interno del rapporto di lavoro è il punto su cui la Corte ha fatto leva per affermare e giustificare la non derogabilità, nemmeno tramite consenso espresso da parte dei lavoratori, della procedura preventiva per l’approvazione dell’installazione di strumenti di ripresa contenuta nell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.
La Corte, inoltre, ricorda che la condotta del datore di lavoro in violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, è punita anche per il tramite dell’art. 28 dello statuto stesso, costituendo un comportamento antisindacale.
La Suprema Corte quindi, con la sentenza in esame, dimostra di aver fatto un passo in avanti rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale, sia dal punto di vista della protezione del lavoratore in senso giuslavoristico, sia dal punto di vista del rafforzamento dei diritti collegati alla protezione dei dati personali (quali appunto le immagini riprese dagli impianti), ritenendo e statuendo che il consenso prestato dai lavoratori non valga a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia provveduto ad installare i predetti impianti di videosorveglianza (ma il ragionamento è del vero applicabile ad ogni apparecchiatura dal quale derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti) in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice.
Non resta che attendere la reazione dei datori di lavoro alla sentenza in esame.
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