Il concetto di smart contract quale protocollo di transazione computerizzato che esegue i termini di un contratto è stato coniato negli anni ’90 da Nick Szabo, un informatico e studioso di diritto noto anche per essere ritenuto uno dei possibili “Satoshi Nakamoto”, pseudonimo del creatore/creatori del Bitcoin (nonostante lo stesso Szabo abbia più volte negato con fermezza).
È solo con l’art. 8-ter del D.L. 14 dicembre 2018 n. 135, convertito in legge con L. 11 febbraio 2019 n. 12 (c.d. Decreto Semplificazioni 2019), che il nostro legislatore introduce nel ns. ordinamento le definizioni di blockchain e di smart contract, stabilendo che “Si definiscono «tecnologie basate su registri distribuiti» le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l’aggiornamento e l’archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili.” e che “Si definisce «smart contract» un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse. Gli smart contract soddisfano il requisito della forma scritta previa identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia digitale con linee guida da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.”.
Lo smart contract è quindi un programma, basato su blockchain, che automaticamente e senza necessità (né possibilità) di intervento successivo, vincola automaticamente le parti al realizzarsi di determinate condizioni dalle stesse predefinite, secondo lo schema IF/THEN/ELSE. Da un p.v. pratico, individuate le relative condizioni, queste sono tradotte in linguaggio di programmazione, e lo smart contract viene quindi inserito nella blockchain prescelta, che ne diventa garante: se si registra l’esecuzione della condizione prevista dallo smart contract, la blockchain viene automaticamente aggiornata.
È quindi uno strumento utile a ridurre, se non addirittura eliminare, i rischi connessi all’arbitrario inadempimento di una delle parti, con particolare riferimento a quelle tipologie di contratto il cui perfezionamento avviene tramite i dati raccolti ed elaborati autonomamente dal software, che stabilirà se sussistono o meno le condizioni (prestabilite) per una determinata operazione, la cui inalterabilità e non modificabilità è garantita dalla tecnologia blockchain su cui si basa.
Diventa così uno strumento che trova naturale applicazione nell’ambito dell’IoT.
Ed infatti, esempi di smart contract possono essere riscontrati nella nostra vita quotidiana: si pensi alle polizze assicurative per autoveicoli che prevedono l’automatica non applicabilità della copertura assicurativa laddove i dispositivi installati sui veicoli registrino determinate casistiche (es. mancato rispetto dei limiti di velocità). Ovvero, ai servizi di car sharing o bikesharing sempre più presenti nelle nostre città: in alcuni casi, se entro una tempistica predeterminata, i dispositivi presenti sul veicolo preso a noleggio individuano un guasto dello stesso, l’utilizzatore viene prontamente informato della necessità di riportare il veicolo, e riceve automaticamente il rimborso di quanto versato per il noleggio del veicolo risultato guasto.
Le potenziali applicazioni di tale nuovo strumento sono quindi molteplici, anche al fine di rendere sempre più snelli e veloci i rapporti tra le parti, trovando naturale applicazione nell’ambito dell’IoT.
Ma uno strumento così giovane per il nostro ordinamento giuridico non può che sollevare anche dubbi e criticità.
L'articolo IoT e Smart Contract: a che punto siamo? proviene da Colin.