Il mondo del lavoro, nelle modalità adottate, sta vivendo cambiamenti significativi. La pandemia ha costretto la maggioranza di imprese ed enti a rivedere i processi interni per consentire, in tempi molto rapidi, l’applicazione del cosiddetto Smart Working.
Rientrata l’emergenza (che ricordiamo sul tema specifico proseguirà fino al 30 giugno 2022), si configura uno scenario che mostra come, tornare alla normalità, possa significare accogliere e saper gestire i cambiamenti avvenuti, mettendo ordine sul tema del lavoro agile. Esiste, infatti, una sorta di equivoco che non può essere ignorato.
In Italia – prima della norma del 2020 – esisteva già un assetto legislativo sullo Smart Working che risale al 2017. Complice la pandemia, tale concetto è stato, di fatto, sovrapposto a quello del lavoro da remoto, che rappresenta una sua semplificazione riduttiva con implicazioni molto differenti e, spesso, sottovalutate.
Il lavoro intelligente comporta, infatti, un mutamento non tanto e non solo del luogo fisico in cui i propri dipendenti operano, ma delle modalità di organizzazione delle attività quotidiane. Esse devono basarsi sul raggiungimento di obiettivi specifici e non sul controllo del tempo lavorativo in senso stretto.
Oltre a questo aspetto concettuale, che non è di poco conto, si percepisce un evidente smarrimento quale risultato di una scarsa consapevolezza, da parte di molti imprenditori ed enti; esso deriva da fattori psicologici, dalla difficoltà di operare un cambio di mentalità per il quale non tutti sono ancora maturi, ma anche dal non contemplare come anche le altre normative applicate in azienda (dagli aspetti giuslavoristici, alla 231 fino alla privacy), richiedano un’attenzione specifica qualora si scelga di applicare – oggi o in futuro – il lavoro agile.
Il legislatore, a mio avviso, non sta facendo abbastanza, trascorsi ormai oltre due anni dallo scoppio dell’emergenza, per formare e informare i datori di lavoro sul corretto iter necessario per integrare in modo organico e sicuro lo Smart Working nelle proprie organizzazioni. Esiste ovviamente, e fa parte del nostro quotidiano, la possibilità di essere affiancati da una serie di figure – comprese quelle legal – che razionalizzino gli asset aziendali in vista di una simile scelta; tuttavia, il gap normativo, scoraggia spesso riflessioni sistematiche e una applicazione coerente che limiti sacche di criticità per il proprio business.
Il risultato, soprattutto guardando alla maggioranza delle aziende italiane che hanno dimensioni medie o piccole, è una spiacevole sensazione di perdita di controllo sul lavoratore, che rinnega di fatto il concetto basilare di lavoro intelligente basato su obiettivi. Quest’ultimo, a sua volta, sente venire a mancare il rapporto fiduciario con la propria organizzazione; un simile scenario generando frizioni che possono sfociare in contenziosi.
In aggiunta a tali problemi gestionali, se ne aggiungono altri legati all’uso delle tecnologie al di fuori degli uffici, presupposto fondamentale per l’attività in Smart Working. Si pensi, ad esempio, alla sicurezza dei dispositivi assegnati, a quella dei dati e alla loro gestione in conformità a quanto previsto dal Regolamento Europeo (GDPR). Trasferire e trattare dati personali, di competenza aziendale, al di fuori del suo perimetro, comporta esporli – se tale processo non viene amministrato correttamente – a numerose vulnerabilità.
Non è un caso che, in questi due anni, si sia registrato un aumento esponenziale di attacchi o incidenti di sicurezza informatica. Spesso, tale risultato, deriva da una formazione sommaria (o assente) da parte dei lavoratori che, non adeguatamente preparati, rischiano di cadere con facilità nelle trappole del cyber crime.
L’unico modo di raccogliere quanto di positivo questa spinta verso modelli di lavoro ibridi o smart può produrre, è quello di ripensare l’insieme dei processi interni; mappare le figure che possono – e desiderano – operare in modalità agile; rivedere e integrare la valutazione rischi dei sistemi informativi; aggiornare le procedure e i regolamenti, di conseguenza, e formare il proprio personale, in modo da tutelare le parti coinvolte sotto ogni tipo di profilo.
Perché ciò sia realizzabile, non si può prescindere da un intervento organico del legislatore che si basi su riflessioni ben più profonde rispetto al semplice spostamento logistico dei lavoratori dagli uffici alle loro abitazioni.
Solo in questo modo, guidando i vertici aziendali con normative che, lontane dall’essere gabelle proibizioniste fungano invece da volano, si può favorire un percorso che porti a uno Smart Working effettivo. Un sicuro percorso di adeguamento, rispetto alle normative prima citate, può rappresentare un passo importante per raggiungere una maturità sul tema e facilitare il cambio di paradigma che molti – tra imprenditori, dirigenti e lavoratori – auspicano.
Articolo pubblicato su “Il Caffé Digitale“
L'articolo Dal lavoro da remoto allo Smart Working, cosa serve e cosa manca proviene da Colin.